Una riflessione su Rio

Di solito questa pagina si occupa di numeri applicati al nuoto e continuerà a farlo: promesso. Ma oggi trattiamo un tema guidati sia dall’analisi dei numeri ma anche dal cuore.
Veniamo subito al punto. Ci sono due cose che hanno intaccato la spedizione azzurra a Rio, al di là delle prestazioni gara più o meno buone: i social network e la zona mista.
Dei primi, dai quali tra l'altro leggete, si conoscono le insidie. Leoni da tastiera pronti a spuntar fuori al primo appiglio utile per sputare sentenze a raffica manco fossero sommi conoscitori di ogni aspetto della vita.
Ed è pressoché ovvio che, se il giorno prima posti una foto felice e contento mentre fai festa al villaggio olimpico ed il giorno dopo gareggi e peggiori di 4 secondi, il leone da tastiera senta il profumo del sangue. E si prepari ad azzannare. E la situazione si aggrava se il giorno dopo ancora ri-posti una foto dove fai di nuovo festa, a meno di 24 ore dalle dichiarazioni affrante del post gara.
Debellare i leoni da tastiera è impresa impossibile: bisogna saperli gestire. Ma il momento dell'Olimpiade, già di suo così carico di pressioni e aspettative, non è di sicuro l'ideale per intraprendere questa crociata. Nemmeno un’atleta esperta come Federica Pellegrini può celare la rabbia e la voglia di sputare un (giusto) sfogo.
Non si può nemmeno vietare, d'altro canto, ad un ragazzo di 20 anni o meno (o più) di vivere appieno l'esperienza del villaggio olimpico e la sua immensa gioia. Le foto dal villaggio sono sempre state fatte, solo che prima non c'erano i social network a testimoniarlo, al massimo dei rullini di macchine fotografiche sviluppate al rientro a casa. Così come c’è sempre stato qualcuno che ha sbagliato gara a causa di una notte poco, per così dire, riposante.
Forse è il caso allora di imporre un silenzio social. Alcune nazionali lo fanno già, alcuni atleti, magari più sgamati, se lo auto impongono.
LeBron James, per citarne uno, non usa i social dall'inizio dei playoff fino alla fine: zero post su Facebook, zero foto su Instagram, nessun Tweet tantomeno Snapchat, solo l'obiettivo finale in mente.
Qui è compito dei tecnici e dei dirigenti tutelare gli atleti, soprattutto i più inesperti, dal rischio sovraesposizione mediatica. A volte con una totale ma vitale censura, altre magari consigliando il dafarsi.
Poi c'è la zona mista, croce e delizia di noi appassionati. Non vediamo l'ora di sentirli parlare, vedere il loro volto dopo la gara. Ma spesso veniamo delusi dalle loro parole, dai loro atteggiamenti, dalle loro spallucce alzate dopo una brutta prestazione. O dalle loro sparate filosofiche che mal celano prestazioni insoddisfacenti.
Intendiamoci: lo sforzo della Rai è encomiabile. Ci dà molto di più di quanto mai avuto proponendo pressoché a ogni evento oltre al commento anche le interviste post gara: chapeau.
Però non è facile uscire da una gara per la quale hai lavorato una vita (questo non lo mettiamo nemmeno in dubbio) e commentarne la brutta prestazione con lucidità. E si tratta pur sempre, come detto prima, di ragazzi di 20 anni o meno (o più).
Il risultato è che, per chi sta a casa e può valutare solo ciò che vede e sente, spesso le interviste sono avvilenti. Il tono che quasi sa di rassegnazione di molti azzurri al microfono non va bene: da l’immagine che la squadra sia in vacanza premio e non all’Olimpiade.
Non deve passare l’idea che i Giochi siano il punto d’arrivo, perché ai Giochi si deve andare per fare bella figura. O almeno provarci fino alla morte. Che tu sia Phelps o l’ultimo dei caraibici che a stento chiude un 50 stile, devi sputare sangue prima di arrivare. E no, non puoi essere comunque soddisfatto della tua prestazione se nuoti un tempo così lontano dal tuo potenziale.
Devi ricordarti che quella vasca è sacra: per quelli come te che l’hanno potuta vivere e per tutti quelli che da casa la sognano. Quindi niente fronzoli, niente battutine e niente mancanza di rispetto (vedi pernacchie). Al massimo qualche mea culpa di più non sarebbe cosa sgradita, perché nascondersi dietro a “in allenamento andavo forte” oppure “ho dato il massimo” non basta. Soprattutto quando le prestazioni non sono all’altezza.
Oppure si decide che ai microfoni ci vanno i tecnici, magari più avvezzi a comunicare il perché di certi crono tutti ampiamente sotto le aspettative, e non dei ragazzi così giovani che rischiano di dare un’idea di sé non aderente alla realtà.
Intendiamoci: non si sta mettendo in dubbio l’impegno, la fatica, il sudore che tutti i ragazzi (ed i rispettivi staff) ci hanno messo per arrivare a Rio: questo è sacrosanto e riconosciuto proprio dal fatto che a Rio ci sono.
E non si mette nemmeno in dubbio, ad esempio, un atleta colpito da un virus che ne ha spento la forza fino a farlo scoppiare in lacrime.
Si chiede solo un po’ di chiarezza riguardo un andamento che, e qui torniamo ai numeri, è negativo. Senza se e senza ma.
Perché VI SVELO UNA COSA: poco prima di 1500 e 4x100 mista le cose stanno così
Londra maschi, 4 finali e 1 semifinale.
Rio maschi, 1 finale e 3 semifinali.
Londra femmine, 4 finali e 1 semifinale.
Rio femmine, 2 finali e 1 semifinale.
Punte a parte, non è cambiato molto.